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Pubblicato: 28/04/2020 da redazione



COVID-19 e Cuore: le implicazioni sono tutt’altro che marginali

Andrea Di Lenarda, direttore del Centro Cardiovascolare di Trieste

 

Andrea Di Lenarda, direttore del Centro Cardiovascolare di Trieste - COVID-19 e Cuore: le implicazioni sono tutt’altro che marginaliLa pandemia da COVID-19 sembra avere solo parzialmente toccato la Cardiologia rispetto ad altri contesti clinico-assistenziali come quelli della sanità pubblica, malattie infettive, pneumologia, pronto soccorso e rianimazione.
In realtà le implicazioni cardiologiche del coronavirus sono tutt’altro che marginali e costituiscono l’occasione per richiamare l’attenzione dei cardiologi e di tutti i medici sulle rilevanti interazioni tra infezioni da virus respiratori o altri agenti patogeni e rischio cardiovascolare.



Cinque punti a mio parere meritano di essere sottolineati:

 

  1. La maggiore vulnerabilità dei pazienti cardiologici. Dai dati della letteratura, nel 40% dei pazienti con polmonite da COVID-19 era preesistente un diabete, una malattia cardiovascolare o cerebrovascolare e la percentuale aumenta tra i ricoverati in terapia intensiva. Inoltre la mortalità è risultata di 4-5 volte superiore nei pazienti con diabete, ipertensione o malattia cardiovascolare rispetto al resto della popolazione. Dei ricoverati in terapia intensiva circa il 15-20% ha sviluppato complicanze aritmiche ed il 20-25% un danno miocardico acuto, definito come innalzamento dei valori di troponina e/o dei peptidi natriuretici. Un dosaggio della troponina dovrebbe essere considerato, come indicatore prognostico, in tutti i pazienti con COVID-19 moderata e grave all’ingresso in ospedale, periodicamente durante la degenza, e nel caso di deterioramento clinico. In coloro in cui il valore risultasse aumentato, andrebbero eseguiti dosaggi seriati per definire la traiettoria enzimatica e quindi anche il grado di attenzione clinica che dovrà essere necessariamente più elevato in chi presenta livelli persistentemente alti o in aumento.
  2. Le terapie cardiologiche e quelle per l’infezione. E’ stata suggerita da alcuni la possibilità di sospendere temporaneamente i farmaci ACE-inibitori e sartani, di largo utilizzo nei pazienti cardiopatici, per il timore che possano favorire la diffusione del coronavirus nell’organismo. Esistono in letteratura pareri discordi, ma al momento attuale appare ragionevole concludere che la sospensione, anche se temporanea, degli ACE-inibitori e sartani al fine di prevenire una futura infezione da SARS-CoV-2 non sia assolutamente motivata (se non da motivi clinici, es. ipotensione o insufficienza renale nelle fasi più critiche della malattia). Un altro aspetto riguarda le possibili alterazioni cardiache ed in particolare dell’elettrocardiogramma in corso di terapia per il COVID-19. L’idrossiclorochina, il Lopinavir/Ritonavir e l’azitromicina possono favorire (più spesso in associazione) la comparsa di un allungamento del tratto QT dell’ECG. E’ anche da considerare che altri farmaci cardiovascolari possono avere lo stesso effetto, così come una ischemia cardiaca o una ipopotassiemia (non infrequente in pazienti con febbre e/o diarrea). Questo aspetto richiede particolare attenzione e l’esecuzione seriata di ECG di controllo.
  3. Le implicazioni cardiache riguardano diverse pandemie virali respiratorie ad iniziare dall’influenza per arrivare alla epidemia da coronavirus. È noto che in tutte le pandemie influenzali la mortalità per cause cardiovascolari è aumentata. L’ipotesi patogenetica della correlazione tra infezione da virus influenzale ed infarto miocardico è quella dell’instabilizzazione di una preesistente placca coronarica mediata dal processo infiammatorio sistemico con conseguente rottura della stessa, esposizione di materiale trombogenico ed occlusione trombotica della coronaria. E’ probabile che un simile meccanismo valga anche per l’infezione da COVID-19. L’altra possibilità, così come per l’influenza, è che l’infiammazione colpisca anche direttamente il muscolo cardiaco, causando una miocardite o che l’infiammazione stessa e la febbre possano fare peggiorare uno scompenso cardiaco preesistente. La comunità scientifica da settimane sta mettendo in guardia dal rischio di sottodiagnosticare un infarto miocardico acuto o uno scompenso cardiaco acuto nel contesto di un’infezione grave da COVID-19 e dal pericolo che la giustificata paura di recarsi in ospedale in presenza di dolore toracico o dispnea acuta possa determinare pericolosissimi ritardi o addirittura l’impossibilità di intervenire efficacemente sulla malattia cardiaca acuta. In effetti stiamo assistendo da un lato ad una riduzione dei ricoveri per infarto miocardico di una entità tale da essere poco spiegata dalla semplice modifica dello stile di vita e dall’altro alle prime segnalazioni di un aumento nelle ultime settimane della mortalità cardiovascolare.
  4. Quando ci lasceremo alle spalle l’emergenza c’è da augurarsi una crescita della sensibilità dei medici e degli operatori sanitari per la protezione dei pazienti con malattia cardiovascolare nei confronti delle infezioni respiratorie e non solo attraverso due strumenti di documentata efficacia: la vaccinazione anti-influenzale ed il lavaggio delle mani. Diversi studi hanno confermato la sicurezza della vaccinazione in pazienti ad elevato rischio cardiovascolare e la sua efficacia nella riduzione degli eventi coronarici. Ogni anno sono colpiti in Italia da sindrome influenzale 5-9 milioni di persone. La letalità dell’influenza è bassa, dell’ordine dello 0.1%, ma tra decessi direttamente ed indirettamente (complicanze polmonari o cardiovascolari) collegati all’infezione ogni anno contiamo tra 5000 e 10000 decessi. Anche in questo caso i pazienti che muoiono sono nella maggioranza anziani e con patologie preesistenti, tra le quali emergono per importanza la patologia cardiovascolare e il diabete. È quindi necessario che cresca in tutti la sensibilità nei confronti dell’opportunità della vaccinazione anti-influenzale sia nei pazienti più esposti al rischio, sia in tutti gli operatori sanitari. È necessario che la cultura della prevenzione, fortemente radicata nel personale sanitario nei confronti ad esempio dei fattori di rischio cardiovascolare, cresca anche nell’ambito infettivologico.
  5. La pandemia ha messo alla luce importanti problemi su come gestire i pazienti ad alto rischio cardiovascolare o con documentata malattia cardiaca. Da un lato l’evidenza che l’ospedale può essere un luogo in cui si contrae l’infezione, come abbiamo detto, ha drasticamente ridotto gli accessi con le potenziali conseguenze drammatiche sul ritardo nella diagnosi e nel trattamento dell’infarto miocardico acuto e di altre urgenze/emergenze cardiovascolari. Dall’altro emerge la necessità di ristrutturare le attività assistenziali per gestire in sicurezza a casa i pazienti più vulnerabili, quelli con cardiopatia più complessa e necessità di frequenti controlli per prevenire le instabilizzazioni. Il problema è amplificato dall’incertezza dell’andamento dell’epidemia, dal proseguimento delle misure di isolamento forzate o di mobilità limitata e dalla difficolta di gestire efficacemente situazioni ad alto rischio come le residenze per anziani o in contesti socialmente ed economicamente fragili. Come già discusso e proposto negli ultimi tempi appare indilazionabile lo sviluppo di modelli di telemonitoraggio remoto e televisite, ad integrazione (non ovviamente in alternativa) alla gestione tradizionale. La disponibilità a sistema di modelli telematici integrati e personalizzati per seguire intensivamente i pazienti più critici a distanza è di grandissima utilità per gestire i pazienti più fragili, e verosimilmente lo sarebbe stato ancora di più in questa critica fase pandemica.