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Pubblicato: 08/05/2018 da



Ipertensione arteriosa e anziano, quali certezze?

Emanuela Serra, medico specializzando in Geriatria; Giuliano Ceschia, dirigente medico f.f., SC Geriatria, ASUITS Trieste

Secondo l’Osservatorio epidemiologico cardiovascolare (Health Examination Survey 2008-2012) in Italia la prevalenza dell’ipertensione arteriosa (IA) nella popolazione adulta (35-79 anni) è del 56% per gli uomini e del 44% per le donne, con un trattamento sottodosato che raggiunge rispettivamente il 57% ed il 66%.

ipertensione arteriosa e anzianiIn passato le linee guida ESC 2007 ritenevano necessario trattare l’IA di grado 1 (140-149/90-99mmHg) indipendentemente dall’età; studi successivi hanno però dimostrato che il beneficio del trattamento antipertensivo è stato ottenuto in pazienti con pressione sistolica (SBP) ≥160 mmHg (grado 2-3). Studi randomizzati sul trattamento antipertensivo nell’anziano hanno osservato un decremento degli eventi cardiovascolari con la riduzione della pressione arteriosa, con target di SBP >140 mmHg; altri trial giapponesi sul trattamento più o meno intenso della pressione arteriosa non hanno dimostrato alcun beneficio nel ridurre la SBP sotto i 136-137 mmHg rispetto ai 145-142 mmHg. Studi condotti in pazienti con ridotta velocità del cammino hanno evidenziato che una pressione arteriosa più bassa correla negativamente con mortalità. Inoltre è stato dimostrato che elevati valori di SBP sono associati ad una riduzione di mortalità in soggetti >75 anni con MMSE (Mini Mental State Examination) < 25/30 o ADL (Activies of Daily Living) < 6/6. Negli anziani fragili ed istituzionalizzati la mortalità aumenta se i pazienti sono in polifarmacoterapia (≥ 2 farmaci) e la SBP <130 mmHg. Nel 2008 lo studio HYVET (trattamento attivo, indapamide supplementato, se necessario, dall’ACE-inibitore perindopril, vs. placebo, in ottuagenari con valori di SBP ≥160 mmHg) ha riportato una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori e della mortalità da tutte le cause riducendo la SBP <150 mmHg (SBP media ottenuta: 144 mmHg). Sulla base degli studi sopracitati quindi le Linee Guida ESC del 2013 raccomandavano di ridurre la SBP tra 140 e 150 mmHg per i pazienti anziani con riscontro di valori ≥ 160 mmHg, considerando infine come target terapeutico pressorio per il paziente anziano fit (indice di fragilità ≤ 0,10) valori anche <140 mmHg.

Nelle più recenti linee guida AHA 2017 il target pressorio di SBP nel soggetto anziano (≥ 65 aa), che vive in comunità, diventa ≤ 130 lasciando al clinico la possibilità di individualizzare la terapia nel paziente con plurime comorbidità o ridotta aspettativa di vita. Lo studio SPRINT, 2015, arruolando 9361 pazienti con valori di SBP ≥ 130 mmHg, a rischio cardiovascolare elevato, non diabetici, ha infatti messo in evidenza come il trattamento intensivo (<120 mmHg), riduce in modo statisticamente significativo l’endpoint primario (infarto miocardico, SCA, ictus, insufficienza cardiaca, morte cardiovascolare) rispetto al trattamento non intensivo. (5,2% vs 6,8%). Si confermava lo stesso risultato analizzando la sottopopolazione di soggetti con età superiore o uguale a 75 anni. Analizzando poi i dati di mortalità nei pazienti fragili arruolati nello studio SPRINT (fragilità definita mediante la velocità del cammino e secondo l’indice di fragilità: soggetto fragile > 0,21, soggetto fit ≤ 0,10) si osservava lo stesso beneficio nel trattamento intensivo vs quello meno intensivo sia per i soggetti definiti fragili così come per quelli fit. Una recente metanalisi (2016) sottolinea come un trattamento intensivo comporti la riduzione del 29% in mortalità cardiovascolare rispetto al trattamento non intensivo) con però un conseguente possibile aumento di insufficienza renale nel gruppo trattato intensivamente.

Nel soggetto anziano restano tuttavia aperti alcuni interrogativi: esistono endpoint primari che possano predire in maniera accurata i benefici di un trattamento antipertensivo? Quali sono i fattori correlati alla fragilità e all’età in grado di predire con precisione l’assenza di benefici clinici del trattamento antipertensivo? Quali sono le caratteristiche dei pazienti definiti “oldest old” che beneficiano di una pressione arteriosa elevata?


Ipertensione arteriosa e decadimento cognitivo

La correzione dell’IA porta ad un miglioramento effettivo nelle performance cognitive del paziente anziano? Lo studio Framingham aveva mostrato che la performance cognitiva è influenzata negativamente da livelli elevati di pressione arteriosa misurati 12 o 14 anni prima; la coorte studiata nello studio EVA (Epidemiology of Vascular Aging) ha mostrato un aumentato rischio di decadimento cognitivo in anziani ipertesi dopo solo 4 anni di follow-up; lo studio HYVET invece ha mostrato solo un trend non significativo nella riduzione di incidenza sia di decadimento cognitivo che di demenza nei pazienti sottoposti a trattamento attivo rispetto a placebo. Nello studio SCOPE, il trattamento con sartano più farmaci aggiuntivi ove necessario, pur non mostrando alcun effetto nel ridurre l’insorgenza di decadimento cognitivo nei soggetti sani, ha evidenziato un rallentamento della progressione in pazienti già affetti da deficit cognitivo lieve. Nel Vascular Dementia Project, il trattamento con calcio-antagonista diidropiridinico in associazione a ACE-inibitore o diuretico ha condotto ad una riduzione del 50% dell’insorgenza di demenza (ma con riduzioni assolute non particolarmente drastiche), sia della forma vascolare che di quella degenerativa, beneficio che si manteneva ad un follow-up di 4 anni. Ci sono tuttavia anche numerosi studi che non hanno mostrato alcun beneficio della terapia anti-ipertensiva sulla funzione cognitiva (ad esempio MRC, CSHA e SHEP).

Pertanto in definitiva, il rallentamento del decadimento cognitivo non può essere considerato una motivazione sufficiente ad iniziare un trattamento antiipertensivo nell’anziano.